Lo «spazzino» dei cieli elimina i satelliti che non servono più
Inquinamento «cosmico»: attorno alla Terra milioni di detriti e migliaia di collisioni. Una startup italiana, che ha ricevuto un nuovo finanziamento da investitori privati, ha inventato un motore che permette alle sonde di «togliersi di mezzo»
Vi è mai capitato di pensare di aver avvistato una stella cadente, in una notte d’estate, per poi accorgervi che era solo un altro satellite? Si riconoscono subito: brillano come le stelle cadenti, ma si muovono in modo lento e continuo, con una traiettoria lineare. In un paio d’ore di sguardi al cielo se ne osservano parecchi. E pensare che lassù in alto ce ne sono molti, molti di più: «Dal 1957 ad oggi ne sono stati lanciati circa 6mila, ma gli attivi sono solo un migliaio. Che fanno gli altri? Sono “morti” ma continuano a vagare in orbita, intralciando i nuovi e, mano a mano che la forza di gravità ha il sopravvento, cadendo sulla terra», spiega Renato Panesi, presidente e co-fondatore di D-Orbit. La sua startup, lanciata nel 2011, vuole ripulire l’orbita da questa «spazzatura spaziale». Così si chiamano, in gergo tecnico, i satelliti che non possono rientrare a terra perché in avaria o perché hanno terminato la loro vita operativa. Sono sempre di più e stanno diventando un problema. Come analizza Panesi: «Da un lato intasano gli spazi disponibili per quelli nuovi, dall’altro rischiano di andare a sbattere con quelli funzionanti mandandoli in avaria. E quando cadono sulla terra non si può prevedere dove precipiteranno, causando magari danni a cose o persone».
Senza competitor
D-Orbit ha una soluzione: Panesi e Luca Rossettini, ceo e co-fondatore della startup, hanno ideato un dispositivo controllato da terra con il quale equipaggiare i satelliti. In caso di avaria, o a fine vita, basta «telecomandare» il satellite per farlo rientrare a terra con una traiettoria controllata da D-Orbit e quindi sicura, decidendo sia il luogo che il momento dell’impatto. La società italiana è una delle poche sul mercato e, come sottolinea Panesi, «l’unica a uno stadio davvero avanzato. Il mercato c’è, il business è enorme e praticamente non abbiamo competitor al nostro livello».
Round 2015
Per questo la startup piace agli investitori. Con i primi due round di finanziamento (il secondo, appena concluso, ha visto protagonisti i gruppi Quadrivio Capital SGR e Como Venture) ha già raccolto oltre un milione e mezzo di euro. Fondi che sono serviti alla società per ampliarsi (nel 2011 erano in due, oggi ci lavorano in 15) e per investire in nuovi mercati (ci sono due sedi in Italia, una in California e una in Portogallo). Il prossimo round arriverà nel 2015 e i due cofondatori prevedono di riuscire ad ottenere molto di più. Un obiettivo che non dovrebbero aver difficoltà a raggiungere dato che il prossimo anno potrebbero fare un primo lancio di test con la Nasa.
Ecologia spaziale
«Siamo in contatto con diversi player del settore e contiamo di firmare il primo contratto di fornitura nei prossimi mesi», sottolinea infatti Panesi. Il loro dispositivo fa gola sia alle agenzie spaziali che a quelle private: sapere come riportare «a casa» i satelliti è un problema che il settore sta iniziando a porsi. Le disposizioni in materia infatti stanno cambiando, come racconta il manager: «La Francia ha stabilito da poco che satelliti francesi o lanciati dal territorio francese devono essere equipaggiati con dispositivi come il nostro. Considerando che molti vengono lanciati dalla Guyana francese si capisce come questa nuova legge possa impattare su tutto il settore». Ma alla D-Orbit stanno già pensando al prossimo passo. Se il primo obiettivo è creare la tecnologia per riportare a casa i nuovi satelliti, in futuro Rossettini e Panesi vorrebbero riuscire anche ad ideare un dispositivo per andare a prendere quelli già esistenti e trainarli a terra: «Vogliamo far capire alle imprese l’importanza di un accesso sostenibile allo spazio».